Il giornalista craxiano, Filippo Facci, ha scritto una livorosa confutazione di una mia riflessione politica, stampata venerdì su Affaritaliani.it e su Libero, in occasione del ventesimo anniversario della scomparsa di Bettino Craxi.
Il pezzo del collega mi ha ricordato quei soldati giapponesi, armati sino ai denti nella giungla 20 anni dopo la fine della guerra. I “nemici” del coraggioso giornalista sono uno dei leader storici del PSI, Giacomo Mancini, scomparso nel 2002, e lo scrivente, che non nasconde affatto, ma si onora, di essere il figlio dello statista calabrese, ancora rimpianto dagli avversari non astiosi e stimato da osservatori autorevoli. Dal momento che su mio padre ho scritto 2 libri, l’ultimo (…”Mi pare si chiamasse Mancini”) recensito da giornali, siti e Tv, conosco bene la storia, autentica dei complessi rapporti politici e personali intercorsi tra Bettino e Giacomo di cui sintetizzo i punti più rilevanti .
1) Fu Mancini -molti ricorderanno la famosa vignetta di Forattini- a proporre il nome del deputato milanese al comitato centrale del PSI, che si riunì all’Hotel Midas di Roma, nel luglio 1976, dopo la pesante sconfitta alle elezioni del partito guidato dal filocomunista De Martino.
2) Bettino, temendo la forte personalità, il decisionismo e la stima di cui l’ex allievo di Pietro Nenni godeva nel partito e sulla stampa, cercò di emarginarlo, nella lunga fase del craxismo. E Giacomo fu tra i pochi, nei congressi, a non associarsi agli ossequi nei confronti del segretario. Su tali vicende Giampaolo Pansa firmò bellissimi articoli. Come, con serenità, ha osservato Stefania Craxi, suo padre e mio padre sono stati due grandi leader, “che hanno avuto storie diverse ma un’identica passione politica, un’identica convinzione sulla necessità di un forte PSI. In fondo, il riformismo di Craxi non era diverso da quello di Mancini… Ed entrambi hanno avuto, dai comunisti, delusioni e una ingiustificata avversione”.
3) Deposizione di Giacomo alla Procura di Milano, nel drammatico 1992.
L’ex ministro della Sanità, che introdusse il vaccino Sabin, intendeva difendere la memoria del suo caro amico, Vincenzo Balzamo, poi passato con Bettino, stroncato da un infarto, qualche settimana dopo aver ricevuto un avviso di garanzia da Tonino Di Pietro. Il testimone dettò agli stenografi: “Il segretario di un partito ha dei doveri ai quali non deve, mai, venir meno. Quando ero segretario, non scaricai alcuna responsabilità sul segretario amministrativo dell’epoca, che era il senatore Augusto Talamona”.
Dunque, responsabilità politiche, non penali. Notò il cronista giudiziario del “Corriere della Sera”, diretto da Paolo Mieli, amico ed estimatore di Mancini : “L’ex segretario ha fatto un discorso generale, oppure ha parlato di fatti specifici, di personaggi precisi ? Più probabile, la prima ipotesi…”. Come ho vergato, venerdì, su Affari, l’ex ministro aveva illustrato i meccanismi di funzionamento e di controllo degli ingenti flussi di finanziamento al PSI, che erano cambiati, durante il craxismo, e venivano controllati, personalmente, dal segretario politico. Dichiarazioni confermate dagli sviluppi delle inchieste e dei processi rispetto ai quali Mancini, pur addolorato per la tragica fine del partito-di cui suo padre, Pietro, fu il primo deputato calabrese, nel 1921-mantenne una coerente ispirazione garantista, non associandosi, mai, al coro di quelli che Rino Formica, craxiano ben più autorevole e acuto di Facci, definì “gli ossequiosi mandarini del giustizialismo a senso unico”.
4) All’incarico di Sindaco di Cosenza non mi nominò Craxi, ma i 4 mila elettori della mia città, che scrissero, sulle schede, il nome del capolista del PSI.
Bettino, di cui sono stato amico personale, venne a Cosenza a sostenere la mia campagna elettorale. I giornali dell’epoca scrissero che, grazie alla mia candidatura, si realizzò una tregua tra i due più convinti assertori dell’autonomia del PSI dai partiti maggiori e dai poteri forti. Rividi Bettino, a Milano, alla fine del 1991, in un ristorante di Brera. Mi interrogò sulle difficoltà della mia esperienza, che stava giungendo all’epilogo, di Capo di una giunta di rinnovamento, combattuto anche dai socialisti, che a Cosenza si dichiaravano craxiani….
5) Tra le lettere, scambiate tra me e Craxi, Facci non ha citato quelle, che vergammo, all’indomani della nomina di Bettino a premier, decisa da Pertini, di cui Mancini avanzò la candidatura al Quirinale, mentre il segretario avrebbe preferito Giolitti. Antonio Ghirelli, mio amico e portavoce del capo del governo, mi chiese la disponibilità a lavorare accanto a lui nell’ufficio-stampa di Palazzo Chigi. Preferii fare il giornalista in Rai, certo socialista, ma al di fuori di qualsiasi “cerchio magico”, apprezzato dagli ascoltatori del Gr3, come intervistatore, per 10 anni, dei leader politici, nell’edizione del mattino.
6) Pochi anni dopo la morte di mio padre, lasciai la Rai, per contribuire, con il compianto Antonio Landolfi e mio figlio, Giacomo, alla nascita e alla crescita della Fondazione politico-culturale, intitolata a Giacomo Mancini. Un politico inviso, anche post-mortem, a Facci, ma non a tanti Sindaci, in primis quella di Roma, Virginia Raggi, che hanno voluto sottolinearne i meriti di governante operoso, intitolandogli strade e piazze.
Tra gli obiettivi della nostra Fondazione, figurano il rilancio della questione socialista e il contributo a evidenziare i meriti e le intuizioni del riformismo del 1900, con una visione lungimirante, non intrisa di rancori, sterili vendette e modeste ripicche alle quali, in vita, Giacomo Mancini mi esortava a restare sempre estraneo.
Articolo scritto dal giornalista Pietro Mancini.
Fonte: www.affaritaliani.it