In una delle ultime interviste rilasciate dal compianto Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, viene riproposta l’eventualità , a tanti anni di distanza, di riaprire la discussione su una delle pagine più tristi e più oscure della storia della nostra Repubblica: il caso Moro.
E nella stessa intervista del 2007 si sottolinea una delle tante zone d’ombra di quella vicenda. Il ruolo che avrebbe potuto assolvere nei famosi giorni della prigionia di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse l’organizzazione criminale calabrese, la ‘ndrangheta, che già allora vantava non poche aderenze nel mondo politico e cosiddetto istituzionale.
Particolare interesse riveste la testimonianza dell’ex deputato democristiano Benito Cazora che venne incaricato dal vertice dell’allora Dc di avviare dei contatti con esponenti della malavita calabrese per cercare di scoprire qualche preziosa informazione sulla prigionia di Aldo Moro. Circostanza che lo stesso Benito Cazora confermerà nell’ambito del dibattimento relativo al processo Pecorelli che si tenne a Perugia.
Il 10 aprile 1997, l’ex deputato democristiano, Benito Cazora, sostenne che già dopo solo sette giorni dal sequestro di Aldo Moro un calabrese conosciuto con il nome di Rocco indicò all’allora questore di Roma il fatto che in Via Gradoli vi fosse un covo delle Br. Illuminante anche la frase che tale Rocco disse in un incontro avuto con l’allora deputato . “Posso dare informazioni sul covo dove nascondono Aldo Moro perché i calabresi a Roma sono 400.000 e possono controllare il territorio”.
In molti si chiesero negli anni successivi alla morte del leader della Dc, come fosse stato possibile che i calabresi sapessero dell’esistenza del covo di Via Gradoli. Quella stessa via il cui nome comparve nel mentre di una seduta spiritica alla quale parteciparono numerosi esponenti politici e quello stesso covo dove ben tre poliziotti, giunti al suo ingresso e scampanellando più volte, non ricevendo alcuna risposta, decisero di andarsene e non di forzare l’ingresso per entratre e controllare se qualcuno occupasse l’appartamento.
E non basta, un altro ennesimo mistero è rappresentato dalle foto che un fortuito spettatore dell’eccidio di Via Fani effettuò a pochi secondi dalla fuga del commando che sequestrò lo statista democristiano. Foto che vennero consegnate alla magistratura inquirente ma delle quali non si seppe più nulla. Foto che misteriosamente scomparvero e non vennero mai più trovate.
Eppure, per come ha sostenuto Sergio Flamigni, ex senatore del Pci, tali foto interessarono gli ambienti malavitosi calabresi. E tale interessamento si evince dal contenuto dell’intercettazione di una telefonata fra Sereno Freato, segretario particolare del Presidente della Dc, ed un deputato della balena bianca.
E non è certamente un caso il fatto che alcune delle lettere che Aldo Moro scrisse durante la sua prigionia vennero indirizzate all’allora potente notabile democristiano, il calabrese Riccardo Misasi che si schierò a favore di coloro i quali erano i fautori di una possibile trattativa con le Br per salvare la vita di Aldo Moro.
E spesso , negli anni successivi lo stesso Riccardo Misasi che si ritirò in Umbria dove visse gli ultimi anni della sua esistenza, affermò con rimpianto che esisteva qualche possibilità di salvare la vita ad Aldo Moro. Ed ancora oggi rimangono insoluti tanti interrogativi e tanti misteri.
Quale ruolo ebbe la ‘ndrangheta nel sequestro e nella morte di Aldo Moro? Quali parti deviati delle istituzioni ebbero contatti, se ve ne furono, con esponenti importanti dell’organizzazione criminale che a Roma esercitava il suo peso e che aveva contatti sia con la mafia siciliana che con la malavita romana, allora capeggiata dalla Banda della Magliana? Che attendibilità ha realmente l’ipotesi che quel giorno in Via Fani fosse presente un esponente di spicco della ‘ndrangheta? A tali interrogativi non vi saranno probabilmente mai delle risposte in perfetta linea con un Paese fondato su misteri ed intrighi mai risolti.
Ma non basta. Altra figura che , rimasta sempre nell’ombra, potrebbe aver avuto, invece un ruolo importante quella mattina del 16 marzo 1978, quando a Via Fani vennero uccisi gli uomini della scorta e venne rapito Aldo Moro, è quella di Giustino De Vuono, calabrese nato a Scigliano, piccolo comune dell’entroterra cosentino, ex volontario della Legione Straniera. Il commando che sequestra Moro in tre minuti spara 91 colpi, 49 dei quali da una sola arma, mai ritrovata, usata da un solo killer. Un vero professionista espertissimo dell’uso delle armi. Tutti i 49 colpi vanno a segno. Giustino De Vuono è uno di quegli uomini che sembrano essere solo frutto della fantasia di registi che amano dirigere film di spionaggio, controspionaggio e misteri. Una vita avventurosa vissuta fra l’Italia ed il resto del Mondo. Negli anni del sequestro e quelli successivi Giustino De Vuono si trova in Sudamerica con frequenti spostamenti fra Paraguay e Brasile. “De Vuono è un personaggio che non ha avuto tutta l’attenzione che avrebbe meritato – afferma Aldo Giannuli , perito della Commissione Stragi e professore alla Stata di Milano – e non c’è dubbio che se dovesse essere confermata la sua presenza a Via Fani, si sposta tutta la lettura del caso Moro”. Ma tutto ciò è solo e unicamente nel campo delle ipotesi senza alcun supporto di fatti concreti o accertati. Non si è mai andati sino in fondo nell’analizzare la figura di Giustino De Vuono come non si è mai andati sino in fondo nell’accertare la presenza di un boss della ‘ndrangheta a Via Fani per come ha dichiarato Saverio Morabito, collaboratore di giustizia. Sussistono molti dubbi e vi è il sospetto e la sensazione che molte verità siano state depistate e volutamente confuse con verità costruite ad hoc. Forse analizzando il ruolo dei servizi segreti ed il particolare momento storico caratterizzato dalla guerra fredda e dl ruolo preminente degli interessi americani che in Italia non gradivano svolte di apertura verso il Pci di allora, per come Aldo Moro auspicava, allora a distanza di tanti anni si potrebbe ricostruire la verità e si potrebbe anche comprendere quale ruolo abbia avuto la ‘ndrangheta ed i calabresi in questa intricata storia. Ma è una storia tutta italiana e come tutte le storie ed i misteri d’Italia la verità non sarà mai conosciuta ed il mistero rimarrà tale.
Gianfranco Bonofiglio