Erano i primi anni settanta, quel decennio che tanto sconvolsero la vita dell’Italia. Gli anni del decennio nero, gli anni della contestazione, delle stragi, della rivolta di Reggio Calabria dei Boia chi molla, gli anni del sequestro di Aldo Moro. E furono anche gli anni in cui la già potentissima organizzazione criminale della ‘ndrangheta avvia una nuova industria ed un nuovo metodo per accumulare denaro da investire nel traffico di droga e negli appalti, segnando l’avvio di quel processo di infiltrazione di capitali illegali nell’economia legale che determinerà quel fenomeno ancora oggi sottovalutato, quello dell’economafia.
La nuova industria è quella dell’anonima sequestri, che per anni sarà l’artefice di decine e decine di sequestri effettuati nell’intero territorio nazionale con molti dei sequestrati che, nonostante il riscatto pagato, non ritorneranno più nelle loro case lasciando affranti per sempre i loro cari. E’ la notte fonda del 10 luglio del 1973, una bella notte con un cielo estivo stellato che rende ancora più belle le favolose piazze romane stracolme di tanti giovani hippy, di tanti giovani che vogliono essere figli dei fiori, che amano e sognano la libertà, il libero amore, che sono contro le caste e contro la ricchezza in mano di pochi che sfruttano i molti. Fra questi giovani a Piazza Navona, che si dilettava a disegnare e vendere piccoli quadretti alla giovanissima età di soli sedici anni, vi era anche Paul Getty III, che viveva a Roma con la madre, proprietaria di una boutique a Piazza di Spagna.
Un giovane che aveva un nome altisonante, era infatti, uno dei quattordici nipoti di Paul Getty I, il magnate del petrolio, l’uomo, nel 1973, più ricco del mondo. Quella notte il giovane Paul Getty III scompare misteriosamente da Piazza Farnese, a due passi da Piazza Navona e Campo dei Fiori nel centro storico della città eterna.. Della scomparsa i giornali dell’epoca ne pubblicano solo qualche riga pensando , inizialmente, ad uno scherzo o ad un tentativo messo in atto dallo stesso giovane con lo scopo di estorcere qualche soldo al ricchissimo quanto spilorcio nonno. Inizia, invece, in realtà, un triste destino di un giovane che ha avuto solo la colpa di essere il nipote dell’uomo più ricco del mondo e la cui vita è stata solo una immane somma di atroci sofferenze ed immensi dolori. Da quella notte inizia il sequestro di Paul Getty III che rimarrà nelle mani dei suoi aguzzini per 158 lunghi ed interminabili giorni.
Esperienza dalla quale il giovane Paul non uscirà mai più. Paul venne rilasciato all’alba del 15 dicembre del 1973 sull’autostrada del Sole all’altezza dello svincolo di Lauria all’esatto confine fra la Calabria e la Basilicata, nella zona del Monte Pollino. Il camionista Antonio Tedesco, che, casualmente, incontrò il giovane Paul nei pressi dell’autostrada nello stesso posto nel quale qualche giorno prima venne consegnato il riscatto, e che accompagnò il giovane presso la locale stazione di polizia, venne intervistato dai cronisti di mezzo mondo. Paul, figlio di genitori separati, aspettò che la mamma, Gail Harris, con la quale viveva arrivasse da Roma per venirlo a prendere. Venne rilasciato in pessime condizioni di salute dopo aver subito la mutilazione di un orecchio che venne spedito in una busta alla redazione romana del quotidiano “Il Messaggero” insieme a delle ciocche di capelli per dare la prova che il giovane fosse nelle mani dei sequestratori disposti a tutto pur di ottenere il riscatto richiesto direttamente al nonno. Riscatto che inizialmente venne fissato nella cifra di due miliardi di lira per poi giungere, nel tempo, alla richiesta astronomica per quei tempi di ben dieci miliardi. Memorabile l’affermazione di Paul Getty senior che appena ricevuta la richiesta del riscatto affermò “Ho ben quattordici nipoti, se pago per uno prima o poi mi rapiscono anche tutti gli altri”. La prima richiesta di riscatto giunse ai familiari di Paul il 26 luglio, dopo soli 16 giorni dal sequestro, e venne quantificata in due miliardi di lire. A tale richiesta seguì il netto rifiuto di pagare. Seguirono due mesi di apparente silenzio da parte dei sequestratori anche se le successive indagini accerteranno che nel frattempo vi furono contatti tra emissari dei rapitori con i legali della famiglia e si registrò anche l’arrivo a Roma di detective privati e di uomini dell’FBI americana. La domenica dell’11 novembre del 1973 l’intera prima pagina de “Il Messaggero” titolava “Il macabro plico arrivato ieri al Messaggero”. Articolo nel quale si documentava minuziosamente l’orrenda decisione presa dai rapitori di mutilare Paul di un orecchio e di spedirlo in una busta insieme a delle ciocche di capelli. Gesto eclatante e che fece il giro del mondo anche perché era la prima volta in assoluto che si adottava un simile messaggio. Sistema che venne poi emulato e adottato i tanti altri sequestri di persona. Per ironia della sorte ed anche per la nota lentezza dei servizi postali italiani la busta contenente l’orecchio mozzo di Paul che venne spedita da Napoli impiegò ben venti giorni per giungere a Roma. “Se dopo questa lettera non succederà nulla, aspetterò la morte a soli 17 anni”, scriveva lucidamente e con una fortissima angoscia il giovane Paul costretto a vivere in una lurida e fredda prigione che venne poi ritrovata dalle forze dell’ordine qualche anno più tardi. Di ben 1000 miliardi era il patrimonio dei Getty nel 1973 ed il valore della compagnia petrolifera di famiglia raggiungeva quota tremila miliardi, ma , nonostante ciò, molte furono le titubanze nel pagare il riscatto ed addirittura il nono pretese dal nipote la restituzione di quanto consegnato con rate a cadenza annuale con l’interesse del 4%. Ma al di là della vicenda personale di Paul Getty III morto a 54 anni per l’aggravarsi del suo già grave quadro di salute, in Inghilterra nella residenza di famiglia nella campagna di Buckinghamshire, dopo aver vissuto per ben trent’anni su una sedia a rotelle completamente paralizzato e quasi cieco, sordo e non in grado di parlare correttamente, in seguito ad una overdose di eroina che nel 1981, a 24 anni, gli procurò un ictus devastante. Il sequestro di Paul Getty III rappresentò il vero e primo “colpo grosso” della ‘ndrangheta che riuscì ad incamerare ben un miliardo e settecento milioni che rappresentarono il primo enorme tesoro dal quale partì la scalata imprenditoriale dell’organizzazione stessa. La leggenda metropolitana narra di un intero quartiere a sud di Bovalino, paese dell’entroterra aspromontano, che gli abitanti del tempo, oggi anziani, ricordano e chiamano ancora “Polghettopoli”. Un intero quartiere, una intera via denominata “Via degli Oleandri”, le cui abitazioni , si narra, sembra siano state costruite con i proventi del sequestro. E non solo le case ma anche l’acquisto di decine e decine di automezzi pesanti adibiti al trasporto terra con i quali si partecipò all’appalto pubblico di sbancamento per l’allora costruenda centrale a carbone che non venne mai costruita. Progetto che poi venne sostituito dalla costruzione del porto di Gioia Tauro che oggi rappresenta uno dei porti commerciali per containers fra i più importanti e strategici d’Europa. Un duplice obiettivo quello legato al sequestro del secolo dell’hippy d’oro. Quello di reinvestire il denaro per avviare una lucrosa attività di gestione del traffico di stupefacenti che nel 1973 era ancora monopolio della mafia siciliana, mentre oggi è monopolio della ‘ndrangheta e introdursi nell’economia legale creando una economia parallela in grado di dare sollievo a quella popolazione oberata dalla fame, dalla crisi e dall’assoluta mancanza di opportunità di lavoro. E non di rado gli investigatori hanno potuto notare che una buona parte della popolazione interessata non solo non ha mai fornito alcuna collaborazione per cercare di individuare dove fosse tenuto nascosto l’ostaggio, ma si instaurò un fenomeno di fiancheggiamento collettivo che invece era fondamentale per la ‘ndrangheta che godeva del consenso popolare. Fiancheggiamento che risultò utile e prezioso anche per i tanti altri sequestri che l’anonima sequestri calabrese continuò ad organizzare per tutti gli anni settanta. Una ‘ndrangheta in ascesa che godeva del consenso popolare e che poteva contare anche con una scarsa incisività delle indagine e dell’azione giudiziaria. Non esistevano allora né pentiti , né collaboratori di giustizia ed i processi erano spesso dei processi – farsa dove le assoluzioni per insufficienza di prove fioccavano. Il processo per il rapimento si tenne presso il Tribunale di Lagonegro, sede di competenza del luogo dove venne ritrovato Paul Getty III e si concluse, nel suo primo grado, nel luglio del 1976. Due furono i condannati, due figure minori, Antonio Mancuso, proprietario dell’auto che trasportò materialmente il riscatto e Giuseppe la Manna, guardiano notturno, al quale vennero ritrovate alcune delle banconote facenti parte del riscatto. Vennero assolti per insufficienza di prove i veri boss della ‘ndrangheta calabrese. Personaggi del calibro di Girolamo Piromalli detto “Don Mommo” e Saverio Mammoliti detto “Saro”, che ne hanno fatto la storia. In appello le pene vennero ridimensionate. Il processo ebbe anche una coda a Milano, per decisione della Cassazione ed uno dei due rapitori, per altre vicende criminali, finì internato per un periodo in un famigerato manicomio criminale. Tranne poche banconote il riscatto non venne mai più ritrovato. Paul Getty III dopo solo un anno dal suo rilascio incontra una giovane e bellissima modella tedesca, Gisela Zacher, che sposerà. Matrimonio che gli costerà il fatto di essere diseredato dal nonno che aveva stabilito che, qualora i suoi nipoti si fossero sposati in una età inferiore ai 25 anni, avrebbero perso ogni diritto ereditario. Dal matrimonio nasce un figlio, Balthazar Getty, che vive e lavora ad Hollywood con una discreta carriera di attore alle spalle. Un processo, quello sul sequestro di Paul Getty III che ben dimostra la realtà del tempo. Una Italia impegnata a fronteggiare altre esigenze, come quella del terrorismo. Una nazione che non disdegna il mantenere rapporti occulti con le organizzazioni criminali come la mafia siciliana, la banda della Magliana che controlla la città di Roma, ed ovviamente, anche la ‘ndrangheta calabrese. Rapporti che servono da corollario a quella strategia della tensione che negli anni settanta vede coinvolti pezzi deviati dello Stato che sull’altare della ragion di Stato basato sull’anticomunismo nell’ottica della guerra fredda ha tollerato l’espansione di un potere forte sommerso e pericolo come la ‘ndrangheta che , comunque, poteva in alcune situazioni ed operazioni, addirittura essere utile alla causa comune. E fra i personaggi coinvolti nel sequestro che segnò l’avvio della mafia imprenditrice e determinò il salto di qualità da una mafia campestre e rurale in una criminalità economica organizzata e con forti mire espansionistiche di natura economica in tutti e cinque i continenti marita particolare attenzione Don Saro Mammoliti, da ben nove anni dissociato dall’onorata società. Figura centrale dell’universo ‘ndranghetista insieme a Mommo e Peppino Piromalli, Peppino Pesce, Mico Rugolo e Teodoro Crea determinò l’avvio della nuova fase espansiva della ‘ndrangheta nel controllo del mercato mondiale degli stupefacenti. Sempre circondato da belle donne al punto tale di meritarsi il soprannome di “Playboy della ‘ndrangheta” ed appassionato di fiammanti auto sportive amava frequentare i night club più in voga nelle roventi notti romane senza disdegnare qualche capatina nei locali milanesi di Francis Turatello. Nel 1975, da latitante si sposò. Due agenti della Cia americana lo avvicinarono fingendosi trafficanti di eroina e cocaina per acquistare un ingente quantitativo di droga. Don Saro rispose che per portare a termine l’operazione era necessario ottenere l’assenso di Don Mommo Piromalli, capo della ‘ndrangheta tirrenica, di Don Antonio Macrì, capo della ‘ndrangheta ionica e di Paolo Violi capomafia a Toronto. L’ipotesi più accreditata è che il sequestro venne ideato e concepito nell’ambito della federazione dei capi che gestiva l’organizzazione nella Piana di Gioia Tauro per la necessità in quel 1973 di reperire fondi da investire soprattutto negli appalti per le grandi opere che stavano sopraggiungendo. Erano gli anni del pacchetto Colombo che approvò per incentivare l’industrializzazione calabrese il grande sogno del quinto centro siderurgico, proprio quando i grandi colossi della chimica stavano per vivere la loro più grande crisi. In realtà una buona scusa per far arrivare in Calabria tanti soldi pubblici che servivano anche a finanziare in modo occulto partiti e segreterie politiche dei partiti allora al potere. Occorrevano centinaia di milioni per compre ruspe, mezzi edili e quant’altro per accaparrarsi i lucrosi appalti anche con la complicità dei colletti bianchi della politica dell’epoca. La ‘ndrangheta che, allora per la prima volta , diventa impresa. E tutto ciò legato al destino di un povero giovane, ricco solo per il cognome che portava, che dalla vita non ha avuto nulla, se non sofferenza. Al suo nome e ai soldi del suo avarissimo nonno si legherà per sempre il primo grande processo di trasformazione e di crescita di una potenza economica che, denominata ‘ndrangheta, rappresenta oggi, nonostante la perseveranza nel sottovalutarla, la più grande e temibile holding globalizzata del crimine mondiale.
Gianfranco Bonofiglio