Negli anni della guerra fredda e della strategia della tensione, termine che per la prima volta venne coniato dal settimanale inglese “The Observer” pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana nel 1969, l’obiettivo principale era quello impedire che il Pci potesse andare al governo e qualsiasi mezzo atto a contrastare tale eventualità era lecito, considerando il ruolo strategico dell’Italia, paese alla frontiera del blocco comunista orientale e paese al centro del Mediterraneo. Nell’ambito di una tale situazione geopolitica ed internazionale si inquadrano, oggi, ad una rilettura più attenta, diversi episodi avvenuti dal 1969 al 1980, dalla strage di Piazza Fontana alla strage di Bologna, che, con 135 vittime e 550 feriti, presentano un filo comune. Quello di un filone nero costituito da personaggi legati a gruppi eversivi di destra e quello della presenza costante di apparati dello Stato configurabili in strutture di “intelligence” che ponevano in essere coperture e depistaggi alquanto discutibili. Situazioni mai chiarire perché ovviamente coperte da segreto di Stato. Ed in questo scenario complessivo maturano rapporti fra alcune famiglie di ‘ndrangheta e personaggi dell’estrema destra. Rapporti spesso favoriti anche da agenti dei servizi segreti. Quei servizi segreti passati alla storia come servizi segreti deviati. Ed il primo episodio che ha consentito di appurare l’esistenza di un concreto rapporto fra l’eversione nera e la ‘ndrangheta è rappresentato da quanto avvenne il 22 luglio 1970 alle ore 17.10. Momento nel quale il direttissimo Palermo – Torino (la freccia del Sud), il treno della speranza e simbolo della massiccia emigrazione dal sud verso la città della Fiat, giunto a circa 750 metri dalla stazione di Gioia Tauro deragliava viaggiando a circa cento Km. orari. Il deragliamento provocò sei morti e settantadue feriti. Dei sei che morirono cinque erano donne. I viaggiatori che erano sul treno composto da diciassette vagoni erano circa duecento e di questi una comitiva di cinquanta era diretta Lourdes per un pellegrinaggio. La tesi iniziale fu quella di un incidente ferroviario. Tesi che venne subito ritenuta quella giusta dal questore di Reggio Calabria del tempo, Emilio Santillo. E negli anni successivi, nonostante molti quotidiani adombrarono l’ipotesi dell’attentato e nonostante le tante discordanze che infarcirono le prime sommarie e lacunose indagini, si continuò a sostenere che si trattasse di un incidente di natura meccanica. Solo il 6 giugno 1993, dopo ben ventitré anni, il pentito Giacomo Lauro, nell’ambito dell’inchiesta “Olimpia1”, e dinanzi al sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, Vincenzo Macrì, dichiarò di essere venuto a conoscenza, nel 1979, mentre era detenuto che il deragliamento del treno era stato causato da una bomba posizionata sulle rotaie da Vito Salverini e fatta esplodere appositamente. Vito Salverini era un neofascista che aveva lavorato nel 1970 nell’impresa di pompe funebri di proprietà dello stesso Giacomo Lauro. Silverini confidò a Giacomo Lauro, per come raccontò il pentito – che l’attentato fu eseguito per conto del “Comitato d’azione per Reggio capoluogo”. E per inquadrare il periodo è giusto ricordare che la rivolta di Reggio nasce il 14 luglio, solo otto giorni prima della strage di Gioia Tauro. Il pentito Giacomo Lauro in un successivo interrogatorio confesserà anche di aver saputo dell’attentato, in realtà, ancor prima che si compisse e che lui stesso procurò l’esplosivo. La testimonianza di Giacomo Lauro venne poi confermata da quella di Carmine Dominici, un esponente di spicco di Avanguardia Nazionale, movimento neofascista, di Reggio Calabria. Indubbiamente la rivolta di Reggio Calabria fu per i gruppi eversivi di ispirazione fascista una buona occasione da sfruttare nel miglior modo possibile, cercando di organizzare iniziative insurrezionali che partissero dal Sud ma con la speranza che potessero coinvolgere l’intera nazione, culminando nell’agognato colpo di stato. Una leggenda metropolitana racconta anche di un campo paramilitare organizzato al momento a Tropea dove sembra che vi sia stata la visita di alcuni colonnelli greci n buoni rapporti con esponenti neofascisti di avanguardia Nazionale.. E non pochi furono gli uomini della ‘ndrangheta che erano pronti anche sul piano militare ad unirsi ai gruppi eversivi che la notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 avrebbero dovuto portare a compimento il tentativo di colpo di Stato organizzato a Roma dal principe Junio Valerio Borghese, il “principe nero”. Golpe che non venne mai attuato perché pochi minuti prima di essere attuato venne annullato da un contrordine. Versione che non ebbe mai validi riscontri ed episodio che non venne mai chiarito nei suoi dettagli. In merito al Golpe Boghese, il pentito Giacomo Ubaldo Lauro dichiarò che l’accordo venne fatto con il gruppo dei De Stefano che erano pronti a fornire propri uomini. Non è stato facile per gli inquirenti cercare di ricostruire, tramite la collaborazione di Giacomo Ubaldo Lauro, detto il “Buscetta calabrese” a tanti anni di distanza, le dinamiche degli intrecci fra eversione nera e famiglie di ‘ndrangheta inquadrandole in un contesto di numerose azioni eversive e, fra queste, la strage di Gioia Tauro. Anche perché molti dei protagonisti erano deceduti e non era facile poter avere validi e probanti riscontri per validare le dichiarazioni del collaboratore Lauro. Ma incrociando più pagine di numerosi procedimenti giudiziari è oramai certo che in quegli anni vennero stipulati dei patti di collaborazione fra ‘ndrangheta ed esponenti di gruppi eversivi di destra. Anche nelle trame nere e negli anni bui la Calabria ebbe il suo ruolo.
Gianfranco Bonofiglio